Un quadro immortale per celebrare la primavera della vita

Il grande capolavoro di Sandro Botticelli datato, secondo gli studi più aggiornati, tra il 1482 e il 1485 e fu eseguita per Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici (1463-1503), cugino in secondo grado del Magnifico. Rimasta a lungo nelle collezioni medicee, fu poi trasferita presso la Galleria dell’Accademia di Firenze e, nel 1919, agli Uffizi.
La sua storia
Il grande capolavoro si distingue per fama e bellezza nella produzione dell’artista legata al cosiddetto “periodo profano” e dedicata a soggetti mitologici. Diventato l’emblema della pittura fiorentina di età laurenziana, questo dipinto è considerato una delle più importanti allegorie pagane della storia dell’arte post-classica.
Si tratta di una delle opere più famose del Rinascimento italiano. Vanto della Galleria, si accostava anticamente con l’altrettanto celebre Nascita di Venere, con cui condivide la provenienza storica, il formato e alcuni riferimenti filosofici.
Lo straordinario fascino che tuttora esercita sul pubblico è legato anche all’aura di mistero che circonda l’opera, il cui significato più profondo non è ancora stato completamente svelato.
Gli inventari della famiglia de’ Medici del 1498, 1503 e 1516 hanno anche chiarito la sua collocazione originaria, nel Palazzo di via Larga, dove rimase prima di essere trasferita nella Villa di Castello, dove il Vasari riferisce di averla vista nel 1550, accanto alla Nascita di Venere.

Il titolo con cui è universalmente conosciuto il dipinto deriva proprio dall’annotazione di Vasari (“Venere che le Grazie fioriscono, dinotando Primavera”), dalla quale derivano anche le linee cardine su cui si sono mossi tutti i tentativi di interpretazione.
Nel 1815 si trovava già nel Guardaroba mediceo e nel 1853 venne trasferita alla Galleria dell’Accademia per lo studio dei giovani artisti che frequentavano la scuola; con il riordino delle collezioni fiorentine venne trasferita agli Uffizi nel 1919.
Se nella critica non vi è alcun dubbio circa l’autografia di Botticelli, piuttosto discordi sono le ipotesi sulla datazione.
Gli estremi sono quelli della collaborazione presso i Medici, dal 1477 al 1490, con la sospensione del viaggio a Roma, per affrescare tre episodi biblici nella Cappella Sistina, degli anni 1480-1482.
Lightbrown ipotizzò una datazione immediatamente successiva al rientro dalla Città eterna, nel 1482, coincidendo con le nozze del committente Lorenzo il Popolano con Semiramide Appiani: l’allegoria di Venere, rappresentata al centro del dipinto, sarebbe anche legata a un oroscopo di Lorenzo, come risulta da una lettera di Marsilio Ficino a lui indirizzata, in cui il filosofo lo esortava a ispirare il proprio agire alla configurazione astrale che ne dominava il tema natale, cioè proprio Venere e Mercurio.
Questa ipotesi è oggi la più accettata dalla critica, sostituendo ormai quella al 1478, prima della partenza per Roma.
La Primavera presenta nove personaggi, evidentemente ispirati alla mitologia classica: due figure maschili ai lati, sei figure femminili al centro, di cui una posta in particolare risalto, e un putto alato. Secondo l’interpretazione più accreditata, la figura al centro è Venere, dea dell’amore, sovrastata dal figlio Cupido, il quale scaglia i suoi dardi infuocati che fanno innamorare gli uomini. Più di recente, in questa figura è stata invece riconosciuta Giunone incinta di Marte.

In un ombroso boschetto, che forma una sorta di semi-cupola di aranci colmi di frutti e arbusti sullo sfondo di un cielo azzurrino, i personaggi sono disposti in una composizione bilanciata ritmicamente e fondamentalmente simmetrica attorno al perno centrale della donna col drappo rosso e verde sulla veste setosa. Il suolo è composto da un verde prato, disseminato da un’infinita varietà di specie vegetali e un ricchissimo campionario di fiori: nontiscordardimé, iris, fiordaliso, ranuncolo, papavero, margherita, viola, gelsomino, ecc.
I personaggi e l’iconografia generale vennero identificati nel 1888 da Adolf Gaspary, basandosi sulle indicazioni di Vasari, edai lì mai più vennero messi in discussione. Cinque anni dopo Aby Warburg articolò infatti la descrizione che venne sostanzialmente accettata da tutta la critica, sebbene sfugga tuttora il senso complessivo della scena.
L’opera, secondo una teoria ampiamente condivisa, va letta da destra verso sinistra, forse perché la sua collocazione imponeva una visione preferenziale da destra.
Zefiro, vento di nord ovest e di primavera che piega gli alberi, attira col suo soffio, rapisce per amore la ninfa Clori (in greco Clorìs) e la mette incinta; da questo atto ella rinasce trasformata in Flora, la personificazione della stessa primavera rappresentata come una donna dallo splendido abito fiorito che sparge a terra le infiorescenze che tiene in grembo.

Al centro campeggia Venere, inquadrata da una cornice simmetrica di arbusti, che sorveglia e dirige gli eventi, quale simbolo neoplatonico dell’amore più elevato. Sopra di lei vola il figlio Cupido, mentre a sinistra si trovano le sue tre tradizionali compagne vestite di veli leggerissimi, le Grazie, occupate in un’armoniosa danza in cui muovono ritmicamente le braccia e intrecciano le dita e adornate da gioielli raffinatissimi, che richiamano la formazione da orafo di Botticelli.

Chiude il gruppo a sinistra un disinteressato Mercurio, coi tipici calzari alati, che col caduceo scaccia le nubi per preservare un’eterna primavera.

Dietro la figura di Venere si riconosce una pianta di mirto. Gli alberi sono collocati in fila e quasi tutti sullo stesso piano. In basso, si distende un ampio prato dove gli studiosi hanno contato 190 diverse piante fiorite, identificandone 138. Si tratta, in generale, di fiori tipici della campagna fiorentina che sbocciano fra marzo e maggio.
L’idealizzazione del contesto
Botticelli non era interessato a proporre una scena dal sapore realistico. Così, se i particolari sono resi attentamente, sull’esempio della pittura fiamminga, l’insieme appare idealizzato. Tutti i personaggi presentano forme allungate e flessuose, si atteggiano con pose eleganti e aristocratiche e camminano o danzano sul prato leggeri e incorporei, apparentemente senza calpestare l’erba e i fiori.

Come succede per altri grandi capolavori del Rinascimento, la Primavera nasconde vari livelli di lettura: uno strettamente mitologico, legato ai soggetti rappresentati, la cui spiegazione è ormai appurata; uno filosofico, legato alla filosofia dell’accademia neoplatonica e ad altre dottrine; uno storico-dinastico, legato alle vicende contemporanee ed alla gratificazione del committente e della sua famiglia.
Queste ultime due letture, con le rispettive ramificazioni possibili, sono più controverse, ed hanno registrato i molteplici interventi di studiosi e storici dell’arte, senza tuttavia giungere a un risultato definitivo o almeno ampiamente condiviso.
Stile
Nell’opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche dell’arte di Botticelli: innanzitutto l’innegabile ricerca di bellezza ideale e armonia, emblematiche dell’umanesimo, che si attua nel ricorso in via preferenziale al disegno e alla linea di contorno (derivato dall’esempio di Filippo Lippi). Ciò genera pose sinuose e sciolte, gesti calibrati, profili idealmente perfetti. La scena idilliaca viene così ad essere dominata da ritmi ed equilibri formali sapientemente calibrati, che iniziano dal ratto e si esauriscono nel gesto di Mercurio. L’ondeggiamento armonico delle figure, che garantisce l’unità della rappresentazione, è stato definito “musicale“.
In ogni caso l’attenzione al disegno non si risolve mai in effetti puramente decorativi, ma mantiene un riguardo verso la volumetria e la resa veritiera dei vari materiali, soprattutto nelle leggerissime vesti.
L’attenzione dell’artista è tutta focalizzata sulla descrizione dei personaggi, e in secondo luogo delle specie vegetali, che appaiono accuratamente studiate, forse dal vero, sull’esempio di Leonardo da Vinci che in quell’epoca era già artista affermato. Minore cura è riservata, come al solito in Botticelli, allo sfondo, con gli alberi e gli arbusti che creano una quinta scura e compatta. Il verde usato, come accade in altre opere dell’epoca, doveva originariamente essere più brillante, ma col tempo si è ossidato arrivando a tonalità più scure.
Le figure spiccano con nitidezza sullo sfondo scuro, con una spazialità semplificata, sostanzialmente piatta o comunque poco accennata, come negli arazzi. Non si tratta di un richiamo verso l’ormai lontana fantasia del mondo gotico, come una certa critica artistica ha sostenuto, ma piuttosto dimostra l’allora nascente crisi degli ideali prospettici e razionali del primo Quattrocento, che ebbe il suo culmine in epoca savonaroliana (1492-1498) ed ebbe radicali sviluppi nell’arte del XVI secolo, verso un più libero inserimento delle figure nello spazio.